nostre vite saranno i vostri libri d’avventura.
Portiamo Omero e Dante, il cieco e il pellegrino,
l’odore che perdeste, l’uguaglianza che avete sottomesso.
"[...]uno
di noi a nome di tutti ha detto:
non
vi sbarazzerete di me! Va bene muoio, ma in tre giorni resuscito e
ritorno
"
Con
questi pochi versi Erri De Luca coglie l'essenza insita
nell'immigrazione recente e passata, le sue cause, le dinamiche, e
soprattutto la forza e la portata del fiume carsico di cui essa è da
sempre portatrice e che essa incanala nel mare della Storia con
effetti rivoluzionari.
"Faremo
i servi"..
Il
fare è l'essenza dell'umano. Dire Homo
sapiens
significa dire Homo
faber.
Declinato al futuro, il verbo diventa perciò l'espressione migliore
dell'uomo che verrà e quindi della civiltà che esso mette in campo
e fa parlare.
Ma
un emigrante è condannato a diventare un servo. Un uomo privo di
libertà, quindi, condannato a non poter decidere cosa vuole fare, ma
a dover prendere ciò che trova. Perché quello che lascia alle sue
spalle è morte, assenza di futuro, non fare, non essere.
"..i
figli che non fate.."
Il
futuro è dei giovani e non dei vecchi. E noi europei, noi Italiani
siamo vecchi e in decadenza. Non facciamo più figli. E non ci
occupiamo più dei giovani, non come dovremmo. Quel "noi"
non è un plurare
maiestatis,
e non è nemmeno il segno che si usa per esprimere del patriottismo.
Quel "noi" sta per "loro", per coloro che
decidono.
Per
coloro che sono liberi, liberi di poter far fare agli "altri",
che sono le membra umane di quell'Europa, ciò che reputano utile e
produttivo di felicità per tutti.
Gli
immigrati vengono perché giovani senza futuro. Masse senza nome,
carnaio di corpi giovani pronti a mendicare un po' di vita perché a
un condannato a morte la morte non fa paura, la morte per un
condannato è la via verso la liberazione dal suo stato di servo e
non perdita di quel "futuro" che tiene l'essere attaccato
al mondo.
L'immigrazione
è quindi un travaso tra disperazioni generazionali. Tra il vecchio
che lascia il vuoto al nuovo, al giovane, a colui che ricerca la
decadenza allo stesso modo dell'acqua che ricerca la roccia. Per
corroderla e penetrarla rendendola prima polvere e poi storia. E nel
fare ciò si deve fare prima morte. Emigrante insomma. L'agnello
sacrificale della storia, sua vittima e suo carnefice.
"..nostre
vite saranno i vostri libri di avventura.."
Il
migrante tagliando il cordone ombelicale che lo lega alla sua terra
d'origine distrugge non solo il posto in cui si riversa, ma distrugge
anche il posto che si lascia alle spalle. Il primo con il pieno. Il
secondo con il vuoto. E il migrante nel suo "fare", nel suo
farsi spostamento, affronta il viaggio più pericoloso che possa
esistere. Che sia egli il nero sui galeoni della Tratta degli schiavi
verso i campi di cotone americano nel Moderno, o più semplicemente
l'ebreo della diaspora che precede l'avvento del Cristo o quella che
lo segue, o magari l'italiano o l'irlandese di fine Ottocento, che
fugga dalla guerra, o dalla persecuzione religiosa, o dalle morse
della fame, il migrante diventa corsaro e pirata della storia e in
quanto tale esposto alla crudeltà delle sue meccaniche disumane e
disumanizzanti.
Ma
in quanto tale egli diventa attore e non spettatore. Conquistatore e
non assoggettato. La sua vita è la ruota della fortuna che gira
facendosi dramma, peripezia, catarsi finale, avventura da cantare,
poema della storia e del suo continuo divenire.
E
all'europeo vecchio e in decadenza non rimane che guardare sbigottito
e nauseato a quest'orda di senza terra, a questi barbari, a questi
vandali, a questi conquistatori, entrare nella propria casa e
metterla in fiamme se non con la guerra, con la puzza, di quella
puzza della cattiva coscienza, la coscienza del potere che affama e
distrugge, ma sempre fuori dalla propria porta, da lontano, al
riparo, nelle braccia dei propri cari e delle proprietà, della
tecnologia.
"..
Portiamo Omero e Dante, il cieco e il pellegrino,
l’odore che perdeste, l’uguaglianza che avete sottomesso".
l’odore che perdeste, l’uguaglianza che avete sottomesso".
Il
migrante è l'Ecce
Homo.
Il Cristo lasciato da solo e umiliato, torturato alla colonna e
incoronato di spine. Il migrante è il testimone dell'esistenza della
crudeltà umana del soldato. Quella che si traveste del sorriso e
della gloria del potere e che in queste vesti d'oro giudica e comanda
l'essere umano. Il migrante invece, deriso e sottomesso, preda del
dolore diventa il simbolo ma soprattutto il testimone vivo della
umanità che verrà.
E
nel fare ciò il soldato non sente più l'odore del male che fa, ma
solo il profumo della propria vanità e del proprio orgoglio.
L'orgoglio che si fa tabù negando l'uguaglianza tra gli esseri
umani, sottomettendo in questo modo parte di essa agli interessi di
un solo colore, il bianco, che non è il colore della grazia o della
verità, ma quello della pelle di chi comanda senza versare una sola
goccia di sudore. Di chi profuma appunto, di chi sta perdendo e non
lo sa.
"..uno
di noi a nome di tutti ha detto:
non
vi sbarazzerete di me! Va bene muoio, ma in tre giorni resuscito e
ritorno"
Corrado Bellantoni
La vecchia emigrazione è ricordata in un toccante video prodotto dall'antropologo Pino Cinquegrana. Il video ha ricevuto numerosi premi nazionali e internazionali.
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