venerdì 7 novembre 2014

Faremo i servi! La nuova emigrazione e la vecchia
Una riflessione di Corrado Bellantoni


"..Faremo i servi, i figli che non fate,
nostre vite saranno i vostri libri d’avventura.

Portiamo Omero e Dante, il cieco e il pellegrino,
l’odore che perdeste, l’uguaglianza che avete sottomesso
.

"[...]uno di noi a nome di tutti ha detto:
non vi sbarazzerete di me! Va bene muoio, ma in tre giorni resuscito e ritorno "


Con questi pochi versi Erri De Luca coglie l'essenza insita nell'immigrazione recente e passata, le sue cause, le dinamiche, e soprattutto la forza e la portata del fiume carsico di cui essa è da sempre portatrice e che essa incanala nel mare della Storia con effetti rivoluzionari.

"Faremo i servi"..

Il fare è l'essenza dell'umano. Dire Homo sapiens significa dire Homo faber. Declinato al futuro, il verbo diventa perciò l'espressione migliore dell'uomo che verrà e quindi della civiltà che esso mette in campo e fa parlare.
Ma un emigrante è condannato a diventare un servo. Un uomo privo di libertà, quindi, condannato a non poter decidere cosa vuole fare, ma a dover prendere ciò che trova. Perché quello che lascia alle sue spalle è morte, assenza di futuro, non fare, non essere.

"..i figli che non fate.."

Il futuro è dei giovani e non dei vecchi. E noi europei, noi Italiani siamo vecchi e in decadenza. Non facciamo più figli. E non ci occupiamo più dei giovani, non come dovremmo. Quel "noi" non è un plurare maiestatis, e non è nemmeno il segno che si usa per esprimere del patriottismo. Quel "noi" sta per "loro", per coloro che decidono.
Per coloro che sono liberi, liberi di poter far fare agli "altri", che sono le membra umane di quell'Europa, ciò che reputano utile e produttivo di felicità per tutti.
Gli immigrati vengono perché giovani senza futuro. Masse senza nome, carnaio di corpi giovani pronti a mendicare un po' di vita perché a un condannato a morte la morte non fa paura, la morte per un condannato è la via verso la liberazione dal suo stato di servo e non perdita di quel "futuro" che tiene l'essere attaccato al mondo.
L'immigrazione è quindi un travaso tra disperazioni generazionali. Tra il vecchio che lascia il vuoto al nuovo, al giovane, a colui che ricerca la decadenza allo stesso modo dell'acqua che ricerca la roccia. Per corroderla e penetrarla rendendola prima polvere e poi storia. E nel fare ciò si deve fare prima morte. Emigrante insomma. L'agnello sacrificale della storia, sua vittima e suo carnefice.

"..nostre vite saranno i vostri libri di avventura.."

Il migrante tagliando il cordone ombelicale che lo lega alla sua terra d'origine distrugge non solo il posto in cui si riversa, ma distrugge anche il posto che si lascia alle spalle. Il primo con il pieno. Il secondo con il vuoto. E il migrante nel suo "fare", nel suo farsi spostamento, affronta il viaggio più pericoloso che possa esistere. Che sia egli il nero sui galeoni della Tratta degli schiavi verso i campi di cotone americano nel Moderno, o più semplicemente l'ebreo della diaspora che precede l'avvento del Cristo o quella che lo segue, o magari l'italiano o l'irlandese di fine Ottocento, che fugga dalla guerra, o dalla persecuzione religiosa, o dalle morse della fame, il migrante diventa corsaro e pirata della storia e in quanto tale esposto alla crudeltà delle sue meccaniche disumane e disumanizzanti.
Ma in quanto tale egli diventa attore e non spettatore. Conquistatore e non assoggettato. La sua vita è la ruota della fortuna che gira facendosi dramma, peripezia, catarsi finale, avventura da cantare, poema della storia e del suo continuo divenire.
E all'europeo vecchio e in decadenza non rimane che guardare sbigottito e nauseato a quest'orda di senza terra, a questi barbari, a questi vandali, a questi conquistatori, entrare nella propria casa e metterla in fiamme se non con la guerra, con la puzza, di quella puzza della cattiva coscienza, la coscienza del potere che affama e distrugge, ma sempre fuori dalla propria porta, da lontano, al riparo, nelle braccia dei propri cari e delle proprietà, della tecnologia.

".. Portiamo Omero e Dante, il cieco e il pellegrino,
l’odore che perdeste, l’uguaglianza che avete sottomesso".

Il migrante è l'Ecce Homo. Il Cristo lasciato da solo e umiliato, torturato alla colonna e incoronato di spine. Il migrante è il testimone dell'esistenza della crudeltà umana del soldato. Quella che si traveste del sorriso e della gloria del potere e che in queste vesti d'oro giudica e comanda l'essere umano. Il migrante invece, deriso e sottomesso, preda del dolore diventa il simbolo ma soprattutto il testimone vivo della umanità che verrà.
E nel fare ciò il soldato non sente più l'odore del male che fa, ma solo il profumo della propria vanità e del proprio orgoglio. L'orgoglio che si fa tabù negando l'uguaglianza tra gli esseri umani, sottomettendo in questo modo parte di essa agli interessi di un solo colore, il bianco, che non è il colore della grazia o della verità, ma quello della pelle di chi comanda senza versare una sola goccia di sudore. Di chi profuma appunto, di chi sta perdendo e non lo sa.

"..uno di noi a nome di tutti ha detto:
non vi sbarazzerete di me! Va bene muoio, ma in tre giorni resuscito e ritorno"
Corrado Bellantoni

La vecchia emigrazione  è ricordata in un toccante video prodotto dall'antropologo Pino Cinquegrana. Il video ha ricevuto numerosi premi nazionali e internazionali.

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